Recensione Bad Cheese | Steamboat Willie diventa horror

Il panorama videoludico indipendente continua a sorprenderci con titoli capaci di osare laddove le grandi produzioni spesso esitano, e tra queste possiamo trovare Bad Cheese, sviluppato da Simon Lukasik e pubblicato da FearDemic. L’opera nasce dall’incontro fra l’immaginario cartoon di Steamboat Willie – a disposizione di tutti dal 1° Gennaio 2024 per decadimento del copywright – e le atmosfere da incubo dell’horror psicologico moderno, creando un ibrido insolito, grottesco e disturbante che unisce innocenza infantile e traumi familiari.

Sin dai primi minuti di gioco, Bad Cheese dichiara apertamente le proprie intenzioni, non trattandosi di un horror costruito su jump scare o scene splatter ma di un’esperienza che lavora sottilmente sulla tensione.
Lo stile estetico retrò, deformato e inquietante, contrasta con le dinamiche familiari narrate, rendendo il tutto ancora più disturbante e il risultato è un’esperienza breve ma densa che lascia un’impronta forte sia a livello visivo che emotivo.

Bad Cheese

Il titolo trova la sua identità in una premessa tanto semplice quanto perturbante: impersonare un piccolo topo antropomorfo costretto a trascorrere un fine settimana in casa con un padre violento e instabile, mentre la madre è assente. Ciò che in superficie potrebbe sembrare la riproduzione di una normale routine domestica si rivela presto un viaggio attraverso l’angoscia, la manipolazione e l’abuso; Bad Cheese mette il giocatore nei panni di una vittima senza protezioni né vie di fuga.

Troviamo quindi un’opera che non prova tanto a intrattenere nel senso tradizionale, quanto cerca di far riflettere sulle dinamiche di potere all’interno della famiglia e sulla fragilità dell’infanzia che, nonostante i limiti di budget e la durata contenuta, ha già attirato l’attenzione per la capacità di coniugare estetica vintage e orrore psicologico.


Narrazione

La storia di Bad Cheese è volutamente essenziale, raccontata più attraverso l’ambiente e le animazioni che tramite dialoghi o cutscene.
Nei panni del protagonista, il giocatore riceve compiti domestici apparentemente banali (come pulire, riordinare e cucinare), ma ogni azione è carica di tensione e qualsiasi errore può innescare la furia paterna, trasformando il mantra “rendi felice papà” nel filo conduttore di una vicenda che gioca sulla costante paura di deludere.

Dietro questa quotidianità si nasconde infatti una realtà molto più cupa, dove il padre non è l’unico problema:

  • La madre che, pur assente, ci lascerà inquietanti messaggi che sembrano volerci guidare tra le opprimenti mura della casa, con un tono tuttavia tutt’altro che amichevole.
  • Il fratello, che rimanendo sempre chiuso nella sua stanza diventa quasi una figura fantasma, facendo sentire il nostro protagonista come non degno della sua attenzione.
  • Gli amici del genitore, terrificanti al livello del padre, ci tormenteranno partecipando a dinamiche umilianti per il protagonista.

L’opera affronta quindi temi come l’abuso psicologico, l’abbandono e i disturbi alimentari, ma senza mai esplicitarli, restando solo suggeriti negli oggetti, nei dialoghi accennati e nelle deformazioni visive che vengono filtrate dalla percezione infantile del protagonista.

La narrazione riesce a trasformare la casa – luogo che dovrebbe rappresentare sicurezza – in un teatro di ansia e disagio dove ogni stanza diventa una metafora, con il caos della cucina che riflette la perdita di controllo, i corridoi bui che incarnano l’oppressione e i giocattoli sparsi che rappresentano una fanciullezza corrotta. Tutto contribuisce a costruire un mondo che sembra oscillare tra realtà e incubo, senza mai dare al giocatore la certezza di trovarsi in uno dei due.

La conclusione della vicenda, pur offrendo momenti di intensità psicologica, lascia volutamente molte questioni irrisolte, trattandosi tuttavia di un approccio coerente con l’intenzione dell’autore che non fornisce soluzioni facili né catarsi, ma lascia al giocatore lo stesso senso di incertezza e impotenza che domina il protagonista.


Gameplay

Sul piano ludico, Bad Cheese si presenta come un’esperienza minimalista ma sorprendentemente varia: i controlli sono semplici, ridotti a poche azioni contestuali ma declinati in scenari sempre diversi.
Nei livelli ci si trova a lavare piatti, sistemare indumenti o lucidare scarpe, salvo poi affrontare sezioni più surreali come sparare calzini con un mitragliatore o usare uno spara-patate contro figure minacciose, in un gameplay dove ogni segmento introduce una novità ed evita la monotonia.

Le meccaniche di base si intrecciano con puzzle ambientali e momenti di stealth, in cui osservare i comportamenti del padre diventa cruciale per evitare punizioni, in sezione che però non risultano mai complesse in senso tradizionale ma che mirano piuttosto ad amplificare il senso di vulnerabilità.
Il giocatore non ha veri strumenti di difesa e la sopravvivenza passa dall’osservazione o dall’obbedienza, elementi che rendono il gameplay funzionale alla narrazione.

Bad Cheese

Una caratteristica che arricchisce l’esperienza è la presenza di collezionabili legati al mondo del bambino, con pupazzi da recuperare, snack da scoprire e piccoli oggetti che spezzano momentaneamente la tensione. Questi elementi, oltre a stimolare l’esplorazione, rafforzano il contrasto tra innocenza e violenza e ogni elemento extra diventa un frammento di memoria, un tentativo disperato di salvare la propria infanzia in un contesto marcio.

Non mancano, tuttavia, limiti evidenti. Alcuni passaggi risultano troppo superficiali per chi cerca un gameplay strutturato e la durata ridotta impedisce lo sviluppo di meccaniche complesse, con un finale che delude dal punto di vista del gameplay non riuscendo a offrire una sfida veramente significativa.
In questo senso, Bad Cheese non va giudicato come un tradizionale survival horror, ma come un interattivo esperimento narrativo che utilizza il gameplay come mezzo e non come fine.


Comparto tecnico e artistico

Se la narrativa e il gameplay dividono, l’aspetto tecnico e artistico di Bad Cheese rappresenta il suo punto di forza. Lo stile visivo, interamente in bianco e nero con tratti deformati, rievoca i cartoni animati anni ’20 per poi distorcerli in chiave horror, e l’effetto è tanto nostalgico quanto perturbante con i guanti bianchi e i movimenti elastici, simbolo dell’innocenza, che diventano strumenti di inquietudine.

L’uso delle luci e delle ombre è particolarmente efficace nel creare un’atmosfera claustrofobica: i corridoi poco illuminati, le distorsioni visive e le animazioni caricaturali contribuiscono a un senso di straniamento costante. Non ci si sente mai al sicuro e, anche nelle scene apparentemente tranquille, c’è sempre un dettaglio disturbante che tradisce la normalità con un linguaggio visivo che riesce perfettamente a trasmettere l’angoscia senza bisogno di spiegazioni.

Il comparto sonoro è all’altezza della componente visiva e il doppiaggio sorprende per la qualità, soprattutto considerando la natura indie del progetto. Le voci, volutamente sopra le righe, accentuano la deformazione percettiva del protagonista, mentre la colonna sonora alterna melodie distorte a silenzi opprimenti, e il sound design ambientale – passi, scricchiolii, rumori metallici – amplifica la sensazione di sporco e disgusto.

Dal punto di vista tecnico, alcune animazioni risultano rigide e la ripetitività di certe sequenze può affievolire l’impatto iniziale. Tuttavia, l’opera dimostra una coerenza stilistica rara dove ogni scelta artistica – dal design dei mostri 2D all’artbook digitale incluso – riflette la visione dell’autore, ricordando che Bad Cheese non punta al realismo ma a un’estetica disturbante che traduce visivamente il trauma psicologico e, almeno in questo, riesce pienamente.


Ringraziamo Simon Lukasik per averci fornito una chiave del gioco per realizzare questa recensione.

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Bad Cheese
BAD CHEESE
IN CONCLUSIONE
Bad Cheese è un esperimento unico che non reinventa l’horror, ma lo usa per raccontare abuso e perdita dell’innocenza attraverso l’estetica distorta dei cartoon anni ’20 in modo breve e imperfetto, lasciando però un segno profondo. Non è tuttavia esente da difetti, con finale affrettato, durata contenuta e meccaniche superficiali che ne riducono l’impatto, ma fortunatamente il comparto artistico e l’atmosfera orrorifica compensano gran parte delle mancanze. Non un titolo da rigiocare, ma da vivere una volta e sicuramente ricordare.
Pregi
Comparto artistico originale
Narrativa coinvolgente
Difetti
Spesso ripetitivo
Poco profondo
Gameplay troppo semplice
6.8
Voto